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Il Teatro? Una bolla di sapone, ma è anche come il Monopoli

Max Mazzotta

Teatro

Il Teatro? Una bolla di sapone, ma è anche come il Monopoli

Intervista a Max Mazzotta dal 22 al 24 maggio alle prese con “L’anima da tre soldi”, esito del laboratorio condotto per Libero Teatro

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È un fiume in piena, Max Mazzotta. Lo incontriamo nel foyer del Piccolo Teatro UniCal, poco prima delle ultime prove in vista dello spettacolo “L’anima da tre soldi” che andrà in scena questa sera e in replica domani e mercoledì nella Sala teatro al DAM Entropia, al Polifunzionale dell’Università della Calabria.

Quello che andrà in scena sarà l’esito del laboratorio rivolto a giovani e giovanissimi che come di consueto Max Mazzotta organizza con Libero Teatro da qualche tempo a questa parte, ma l’occasione è sempre buona per parlare del Teatro e di tutto ciò che gli gravita intorno. E anche di tutti i progetti che Max Mazzotta sta portando avanti in questo periodo.

Cominciamo dal Laboratorio. Quelli di Libero Teatro firmati da Max Mazzotta lasciano sempre un segno e sono piuttosto famosi.

«Ci teniamo molto a che siano ben fatti. E poi, cosa intendiamo per laboratorio? È un luogo dove sperimentare, un mondo dove si ricerca di continuo inseguendo un’idea che sarà un prodotto. Nel teatro la parola prodotto è difficile da usare, perché lì sono in gioco l’umana coscienza, l’umano, il personaggio, la vita; è una cosa talmente effimera che non puoi chiamarla prodotto. Il prodotto è chiamato una cosa finita che rimane sempre uguale, su uno scaffale, gli spettacoli sono delle bolle di sapone, invece, ci sono e non ci sono».

Di teatro, ma è sempre un laboratorio.

«In ogni prodotto finale, sia un laboratorio di scarpe, orafo o chimico, deve rimanere tutto il lavoro di ricerca. Così nel laboratorio teatrale il prodotto finale è l’anima di un teatro, o di un’idea poetica di teatro, politica, sociale, artistica, che a mio modestissimo parere, deve esserci dentro e intorno a qualsiasi struttura teatrale.

Questo passaggio però un po’ si è perso, ma alla fine il teatro è specchio della vita: a volte insegna la vita delle cose, altre volte la subisce, a volte riesce ad imporsi e a dirci che è così che dovremmo comportarci, è così che dovremmo essere, altre volte non ce la fa. In questo periodo io vedo che il teatro non ce la fa ad andare oltre quello che è il magma, diciamo di quello che ci sta succedendo un po’ a tutti.

È un momento difficile, e bisogna tenere duro ribadendo secondo me questi principi, anche se, credo, ci metteranno del tempo ad attecchire. Però si comincia: è come una spirale, si va e si va, si ricomincia e bisogna sempre esserci. E’ quello che abbiamo deciso di fare, che abbiamo scelto ed ecco che i laboratori acquisiscono una importanza. Ho iniziato con dei laboratori. “Follia di Shakespeare” era un laboratorio, “Vite di Galileo” era un laboratorio da Brecht diventato poi uno spettacolo prodotto dal Piccolo di Milano – Max Mazzotta è stato allievo di Strehler, ndr -, così come tanti altri sono diventati effettivamente degli spettacoli».

Shakespeare con “Follia”, lo scorso anno “Il gabbiano” di Cechov, adesso Brecht. A Max Mazzotta piace confrontarsi con testi non da poco.

«È come il Monopoli, con il teatro si ripassa sempre dal via. Tu fai i giri, ti becchi gli imprevisti, le probabilità e vai pure in prigione, però alla fine ripassi sempre da lui, da Brecht, così come dagli altri grandi autori: vuol dire che c’è qualcosa che deve ancora venire fuori, che non hai ancora capito e che comprendi con una maturità diversa e ti chiedi come hai fatto a fare questa cosa qua, e quanto eri cretino e non avevi capito nulla. Qui andiamo su un discorso difficile, caro a Brecht e alla meccanica quantistica: ciò che viene osservato cambia perché lo osservi.

Questa è una regola che pare metta d’accordo tutti i fisici teorici esistenti, il teatro lo aveva già capito da prima, è avanti. In un certo senso Brecht ci insegna che l’osservazione rende reale e vivo ciò che osservi, quindi può essere che anche questi testi che sembrano fissi, immutabili perché fissati sulla carta, in realtà mutano perché li guardiamo con occhi diversi, a seconda delle fasi della vita in cui ci troviamo, e ci diranno delle cose che prima non potevano dirci».

Ed è sempre qualcosa di nuovo.

«È una verità: ritornare su degli autori è un continuo stare insieme a degli amici, a cui sei affezionato: ogni tanto di va di andare a trovarli di nuovo, per sentire anche cosa hanno da dirti, dopo tanto tempo. Sì, hanno sempre qualcosa da dirti: cedo volentieri a questa lusinga, anche perché siamo servitori di questi grandi maestri, autori, geni. Il nostro dovere è farli vivere in qualche modo».

Da fanatica di Cechov, non posso non tornare a lui.

«È l’abc. Se devi fare una scuola, Cechov e Stanislavskij vanno insieme, almeno io ho avuto questo tipo di insegnamento di base. Alla fine il teatro si è trasformato molto rispetto a loro, ma per fare una scuola devi capire Cechov: va ripreso sempre, così come i metodi, perché alla lunga si dimenticano e le nuove generazioni non hanno molta predisposizione per alcune cose. Lo faccio ugualmente, spendendo ore e tempo della mia vita, anche con rinunce. Non è facile la didattica.

Se ci deve essere l’anima del teatro, bisogna tenere duro, perché queste idee non è che ci sono così: c’è un lavoro sotto che devi fare manualmente, che a volte ti chiedi perché lo fai e pensi che se domani smetti, non piangerà nessuno per questo, non vedi nel mondo intorno a te un bisogno in tal senso e ti chiedi se è possibile che solo tu avverta questa urgenza. Sono proprio questi i momenti in cui tenere duro e cercare di fare quello che si sa fare. Sperando che le cose un poco cambino».

Cosa significa per Max Mazzotta lavorare su un autore e non semplicemente su una trama?

«Se i laboratori li fai sempre e non sono mirati semplicemente a insegnare come si fa una determinata cosa, come si imposta una voce, come si prepara un personaggio, cosa fai non ha così importanza. Se invece lavori su un autore e decidi di fare una messa in scena, ecco che il laboratorio diventa un’esperienza totalizzante, completa.

Senza la messa in scena puoi fare tutti i laboratori che vuoi, però manca quella parte fondamentale che è l’esperienza. Gli esiti li faccio per questo motivo: non dobbiamo fare vedere quanto siamo bravi, ma confrontarci con il pubblico, vedere come reagiscono gli spettatori, ma devi vedere anche come reagisci tu, se sei idoneo e adatto a saper tenere le emozioni, per capire cosa significa fare teatro».

C’è qualcosa di diverso che i ragazzi protagonisti de “L’anima da tre soldi” hanno fatto capire a Max Mazzotta, rispetto a ciò che sapeva finora?

«Ogni laboratorio, magicamente, mi fa arrivare allievi che ogni volta sembrano specifici per quell’autore lì, e magari non hanno mai fatto niente di teatro. Quest’anno mi sono arrivati sette brechtiani. Mi spiego meglio: Bertolt Brecht è come una bolla in cui ci devi mettere effetto di straniamento, terza persona, teatro sociale, teatro canzone. Il teatro di Brecht è concettuale, quindi anche didattico: i testi sono fatti per essere recitati e interpretati in un certo modo. Io questo modo a loro l’ho insegnato, ma sembrava che lo sapessero già.

Per altri attori è difficilissimo fare Brecht: questo effetto di straniamento o il teatro epico, il parlare in terza persona, come se tu raccontassi il tuo personaggio invece di essere il personaggio, quindi stiamo all’opposto di Stanislavskij, non è facile, perché ognuno pensa che fare l’attore sia interpretare,  e invece questo darsi, aprirsi al pubblico loro ce l’hanno spontaneamente. Io non dovevo fare questo tipo di  lavoro, volevo fare altro, all’inizio».

Cosa ne è uscito, alla fine?

«Inizialmente volevo fare solo uno dei testi, però avevo nel cassetto questa idea, e piano piano i ragazzi mi hanno convinto che potevano farla: avevo scritto questo testo ex novo partendo dai due iniziali – “L’opera da tre soldi” e “L’anima buona di Sezuan”, ndr -, intitolandolo “L’anima da tre soldi”, proprio perché oggi l’anima non vale neanche tre soldi bucati, come si dice in una battuta, perché una volta vendevi l’anima al diavolo, adesso nemmeno il diavolo la vuole.

Ispirandomi a questa ironia un po’ brechtiana, ho pensato di fare un gioco che magari avrebbe divertito anche lo stesso Brecht, oltre che noi: ho unito questi due testi attraverso un personaggio, Mackie Messer – o Macheath o Mack the Knife che dir si voglia, ndr – da “L’opera da tre soldi”, che in realtà io ho identificato con Shui Ta, il personaggio cattivo che inventa Shen Te per poter sopperire a un fatto gravissimo».

Ci può dire qualcosa in più sulla trama?

«Shen Te è una prostituta e per liberarla gli dei le hanno dato dei soldi. Con questi lei apre una tabaccheria, ma essendo un’anima buona non sa dire di no, quindi tutti i diseredati che abitano in questa regione poverissima che è il Sezuan, cominciano a sbranarla: lei allora, per tentare di sopravvivere a questo mondo, decide di inventarsi Shui Ta, un cugino cattivo, autoritario, che non si fa sbranare, anzi.

L’ho voluto identificare con Mackie Messer, il cattivo per eccellenza di Brecht, uno senza scrupoli: Shen Te evoca questo personaggio che si porta dietro gli altri dell’Opera da tre soldi. Quindi avremo Mackie Messer in gabbia fin dall’inizio, a differenza del testo originario, che si trova circondato da questi personaggi, come se li ricordasse.

Questo cugino viene chiamato a intervenire sempre più e la questione degenera fino a che gli altri cominciano a pensare che lui abbia ucciso Shen Te. L’anima da tre soldi è un gioco, che ha cominciato a piacermi, a intrigarmi. Sono arrivati questi ragazzi come raramente mi è capitato di incontrarne: certo, sono acerbi, del resto hanno un’età che va dai 18 ai 26 anni, ma non hanno mai fatto niente – di teatro, ndr -, e si comportano come se avessero sempre avuto a che fare con il palcoscenico».

Shen Te è costretta a inventarsi un cattivo, per tutelarsi.

«La condizione umana, per come se la immagina Brecht, è questa. E la vita non è cambiata, lo è solo la percezione della libertà: Gaber diceva che la libertà è partecipazione e non dipende dai soldi. Io invece penso che i soldi te la danno, oggi, la libertà. Due sono le cose che ti danno la libertà: l’arte e i soldi».

Beh, ma anche nell’arte, solo se hai soldi sei libero.

«Non te la dico proprio questa. Oggi stiamo vivendo questa discriminazione potente: se non hai niente non sei niente. E Brecht ci era già arrivato, mi spiace dirlo. Non è un problema di oggi, però adesso in effetti una battuta del genere ha un effetto diverso. Forse ci sono cose per cui i soldi non servono, ma anche il pensiero: quanto influisce la tua condizione su di esso?

Se sei milionario prima di tutto puoi fare del bene, a te stesso e agli altri, puoi curarti se ne hai bisogno. Nel teatro, se hai i soldi puoi fare quello che vuoi, puoi pensare quello che vuoi, scrivere quello che vuoi. In un certo senso il denaro non ti dà la felicità, ma ti dà la libertà. E’ chiaro che ci sono anche altri tipi di libertà, però…».

Passiamo a parlare di Max Mazzotta, dei suoi progetti personali in corso.

«Il 27 e il 28 maggio sarò a Roma, al Teatro del Quarticciolo con “Vite di Ginius”. Lo spettacolo sta girando, ma ha ancora fatto poche date, spero ne faccia altre, ci tengo moltissimo. Subito dopo sarò a Palmi per le riprese dell’ultimo film dei fratelli Manetti».

E poi, c’è qualcosa che Max Mazzotta ha in cantiere?

«Sto lavorando a un progetto musicale che volevo fare da tempo. Mi sto preparando per fare questo concerto e mi sto divertendo tantissimo».

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