Teatro
Liv Ferracchiati: l’ironia è la chiave di lettura del Mondo
In attesa del debutto regionale di “Fuck me(n)” a cura della compagnia Evoè!Teatro – in programma sabato 18 febbraio al Teatro Comunale di Badolato, appuntamento della rassegna SPAc della residenza MigraMenti -, abbiamo voluto confrontarci con Liv Ferracchiati, che ne firma l’adattamento e la regia. Drammaturgo tra i più cool del momento secondo Rolling Stone, dopo aver conquistato la scena nazionale ottenendo i Premi Hystrio e Scenario, Ferracchiati è impegnatissimo, sempre – in questi giorni è alle prese con la tournée di “Uno spettacolo di fantascienza – Quante ne sanno i trichechi” -, ma il tempo per rispondere alle nostre domande, in qualche modo lo ha trovato.
Lei si descrive più come autore, facendo prevalere la scrittura sul resto, ma come sarebbe la sua scrittura (per il teatro) senza la declinazione della scena?
«Mi descrivo come un autore perché sono più affascinato da quei processi che permettono di guardare a temi o testi noti da altre prospettive, nonché dalle strutture drammaturgiche e dal loro crearsi attraverso la scena. Il lavoro scenico, sia quello relativo alle improvvisazioni (per verificare o far nascere nuove pagine, sia quello relativo al montaggio, per me è una seconda scrittura».
E in questo quanto è importante l’apporto attoriale?
«Di norma non amo “dirigere” gli attori, gli attori bravi non hanno bisogno di essere diretti, semmai bisogna farli immergere nel progetto e nei suoi perché. Preferisco creare con loro un’affinità di pensiero, se possibile, e aspettare che si avvicinino a quello che è per me il punto di arrivo, un punto di arrivo che individuo mano a mano anche grazie al loro lavoro in sala. A volte succede che l’interprete abbia un’idea migliore di quella di partenza e, allora, sono pronto a cambiare, altre cerco di portarlo io verso un punto che mi sembri risolutivo. In ogni caso mi interessa lo scambio con l’interprete e la sua umanità, perché alla fine è di esseri umani e di temi a loro affini che ci occupiamo facendo teatro».
Sostiene di essere disinteressato al confezionamento di uno spettacolo, poiché avere un testo già scritto toglie slancio creativo. Come funziona allora con la riscrittura?
«Non trovo molto interessante sapere già tutto di quello che sarà di un progetto, perché per me il quid del mio lavoro è stare in ascolto della materia scenica e drammaturgica che si va via via accumulando, per poi selezionarla e costruirle intorno una struttura. Di norma parto da un’intuizione e studio un progetto per un lungo periodo prima di entrare in sala prove, ma poi, seppure io abbia uno schema, il mio obiettivo è, come nella vita, stare a vedere cosa succede. Si può e si deve anche avere dei giorni vuoti, in cui non riesci a risolvere o a costruire niente, fa parte del processo creativo. È un continuo stare in bilico e in crisi, ma funziona così. Sapere già tutto, anche quanti passi farà un attore in una data scena, è una possibilità di un certo tipo di regia, ma per me è dare vita a qualcosa di già morto, morto perché già definito in una forma. Invece, a me interessa che il contenuto suggerisca, ogni volta, la forma che vuole assumere per mostrarsi».
In questa prospettiva, come può descriverci il confronto con grandi autori quali Čechov, Ibsen, ma anche con figure più contemporanee, come Sgorbani, Spinato e Traverso?
«Il lavoro con i classici non è tanto diverso da quando lavoro a testi originali o con autori contemporanei, il procedimento è lo stesso, quello che cambia è la materia di studio e di partenza, perché cerco di conoscere tutto il mondo dell’autore e, quando necessario, lavoro fianco a fianco con un traduttore che mi permette di accedere alla chiave principale della lettura: la sua lingua originale».
In “Fuck me(n)” affronta la paternità, l’educazione e il potere, scardinando il senso del ruolo di genere. I protagonisti dei tre monologhi sono carnefici, ma a loro volta vittime. Quando si innesca il cortocircuito della mascolinità?
«Non saprei rispondere. Suppongo che per tutta la vita si assorbano dei modelli di cui si è vittime e poi, progressivamente, si diventi quegli stessi modelli. C’è però la possibilità di interrompere questo ciclo e ideare un nuovo modello non tanto di uomo, ma di essere umano».
Ha partecipato al Festival di Giffoni, il primo spettacolo della Trilogia sull’identità è “Peter Pan guarda sotto le gonne” e la sua compagnia si chiama The baby walk: l’infanzia e i bambini ricorrono nel suo lavoro. Crede che il teatro debba rivolgersi in qualche modo anche a loro o perché debba fare semplicemente appello al bambino che è in ogni adulto?
«Non mi è capitato tanto spesso, ma è vero che mi piace raccontare l’infanzia, perché è il momento in cui l’essere umano guarda al mondo senza avere dei pensieri a priori. Lo sguardo del bambino è super partes. Credo che ci si debba sicuramente rivolgere con fiducia alle nuove generazioni e forse provare a far rivivere negli adulti quello sguardo».
Non ha mai nascosto di ricorrere spesso all’ironia, che è diventata quasi un suo tratto distintivo. È l’ironia che salverà il mondo?
«L’ironia per me è una chiave di lettura del Mondo, ma esiste vera ironia solo se sotto di essa vive il tragico, la crisi, la consapevolezza che si è sempre a un passo dalla morte. Sapere che siamo caduchi potrebbe salvare il mondo, ma non so se riusciamo a tenerlo a mente».
Chiudiamo con una citazione che è però una domanda: perché non viviamo come avremmo potuto?
«Questa è una battuta centrale del “Platonov” di Anton Čechov e credo sarebbe un bel titolo per un paragrafo che riassuma parte della sua poetica. Io personalmente, forse perché traggo indegnamente insegnamento da tanta umanità narrata nei classici, vivo al massimo di quel che posso. Anzi, uno sfottò da parte di amici nei miei confronti è che “vivo al di sopra delle mie possibilità”. Anche se, suppongo, intendano più a livello economico che non esistenziale».