Giovedì 20 aprile sarà sul palco del Teatro Grandinetti di Lamezia Terme (Cz), con “Come un granello di sabbia”, il monologo scritto e diretto insieme a Massimo Barilla, sulla drammatica storia di Giuseppe Gulotta, incarcerato per 36 anni con una sentenza di omicidio, che si è rivelata alla fine infondata, ma Salvatore Arena, protagonista in scena, è anche impegnatissimo per il prossimo spettacolo che debutterà presto, sempre con la compagnia reggina Mana Chuma.
«Debuttiamo il 29 settembre a Forlì, al festival “Colpi di scena festival”. Si intitola “Un’altra Iliade”, raccontia la guerra di Troia attraverso il punto di vista troiano e il punto di vista greco: abbiamo fatto un percorso tra farsa e tragedia, c’è Tersite, che è una figura minore in Omero, che tiene banco al campo greco e fa ridere; e poi c’è il punto di vista troiano con un personaggio che ha la consegna di raccontare questa storia per sempre, nel tempo».
Sarà un dialogo, quindi?
«È un po’ un vizio di famiglia, sì: a noi piace molto questo tipo di racconto a più voci, un esperimento che facciamo da tempo e che non fa nessuno, questo di raccontare delle storie attraverso dei dialoghi: in venti anni abbiamo visto che funziona benissimo. È molto particolare questa guerra di Troia, vedremo».
Chi è Giuseppe Gulotta?
«Giuseppe è un innocente che è stato violentato dalla giustizia italiana, anche se poi alla fine la giustizia gli ha dato ragione con un po’ di ritardo, 36 anni. E’ un uomo del popolo, di diciotto anni, che pensa a lavorare, ma una sera i carabinieri lo prendono da casa e lo portano in caserma dove viene picchiato, torturato e costretto a firmare la confessione del duplice delitto di due carabinieri di Alcamo Marina, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Per questa sua firma trascorre in carcere 22 anni effettivi e nel complesso ci vogliono 36 anni prima che venga giudicato innocente perché estraneo ai fatti. E’ un uomo di cui posso solo immaginare la sofferenza e il dolore che ha provato e che continua a provare, perché certe esperienze non si tolgono facilmente dalla carne, restano per sempre. Sono anni di vita rubati, che nessuno può restituirgli».
Come avete conosciuto la storia di Gulotta?
«Questo spettacolo è nato semplicemente perché la storia è venuta a cercarci: Massimo ha incontrato un amico nei pressi del Tribunale che gli aveva accennato a questa storia assolutamente assurda. Qualche tempo dopo un nostro amico in comune, un avvocato ex compagno di Liceo di Massimo, senza che sapesse nulla gli ha accennato la stessa storia, e Massimo voleva proprio parlargli di quella, perché avevamo già intenzione di raccontarla. Lì abbiamo capito che lo spettacolo andava fatto e che avremmo dovuto incontrare davvero Giuseppe Gulotta».
E’ uno spettacolo che gira da parecchio, no?
«Sono tanti anni che lo facciamo, è vero, perché vive di vita propria, nel senso che lo abbiamo portato anche a Malta, Parigi, a Colonia, a maggio andremo anche in Macedonia. La cosa molto bella è che forse è una voce che non vuole essere chiusa: questa storia ha bisogno di essere raccontata, è anche un modo per dare una piccola luce alla storia di Giuseppe, ma anche un po’ di giustizia a lui. Anche se è solo un granello, la nostra storia, come Gulotta è solo un granello nell’ingranaggio della giustizia: la vicenda accade in un periodo, nel 1976, in una Sicilia politicamente instabile, come tutta l’Italia, dove chi comanda sono i Servizi segreti, la malavita organizzata, i traffici di eroina. E’ un momento in cui serve un capro espiatorio per quella storia, e chi meglio di Giuseppe Gulotta. Ma lui è l’unico, di coloro che sono rimasti coinvolti nella storia, che è rimasto e ha affrontato la situazione: gli altri sono andati via, all’estero, lui invece è rimasto in carcere perché sapeva che era l’unico modo per dimostrare la propria innocenza. È una storia terribile, dai contorni neri, nerissimi, che è necessario raccontare».
Le musiche hanno anche una loro identità in questo spettacolo.
«Sì, non sono semplicemente delle musiche. Io le chiamo drammaturgia sonora, perché raccontano lo stato emotivo del personaggio o del frammento della storia. Per noi la musica non è mai stata un semplice accompagnamento. Le musiche sono di Luigi Polimeni, un compositore con cui lavoriamo da tempo, le scenografie sono di Aldo Zucco».
Come reagisce il pubblico di fronte a questa storia?
«Lo spettacolo è incentrato su Giuseppe Gulotta, ma in realtà ci sono anche due carabinieri uccisi, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, per i cui omicidi ancora oggi non sono stati trovati i colpevoli. E questo va detto, anche Giuseppe ci tiene molto. Sono stante le persone che hanno sofferto per questa storia. Giuseppe molte volte segue lo spettacolo, non so se ci sarà il 20 a Lamezia, ma spesso, a fine spettacolo a volte anche a prescindere dalla sua presenza, la gente rimane a fare domande, in maniera naturale. Soprattutto i ragazzi rimangono a chiedere, restano molto colpiti dalla storia, perché potrebbe succedere a tutti. Sono storie vere che hanno attraversato la pelle, il corpo di persone vere, non scritte su carta».
La compagnia Mana Chuma lavora molto soprattutto fuori dalla Calabria, dicevamo.
«Sì. Il 3 sono a Treviso al Festival con “Quanto resta della notte”, a luglio ci tornerò con un altro spettacolo. La nostra credibilità nasce dal lavoro che abbiamo fatto e dalla voglia di resistere al Sud. È una cosa a cui tengo particolarmente: abito a Reggio Emilia da tanti anni, per me sarebbe stato molto più semplice continuare il mio lavoro qua, serenamente. Mentre con Massimo abbiamo pensato, ma non ce lo siamo neanche detti, che sarebbe stato meglio resistere al Sud, perché è la nostra terra, è il nostro luogo di partenza. Volevamo portare il nostro Sud a più livelli, per farci conoscere come compagnia ma anche come possibilità per mostrare che al Sud si possano fare grandi cose. Noi le abbiamo realizzate, con grande fatica e difficoltà, ma le abbiamo realizzate come se fossero una follia. Abbiamo voluto mostrare che si può investire al Sud, le difficoltà non ci hanno mai fermato, anzi, abbiamo sempre rilanciato con grande dignità, forza morale e rigore. Questa forza nasce perché apparteniamo a questo territorio. In una intervista mi hanno detto che questa terra è di malaffare: sì, è una terra torturata e violentata da mille contraddizioni, anche legate a un mondo corrotto e quant’altro, ma è pure fatta di persone che hanno scelto di restare, e non parlo solo di noi».