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Come tremano le cose riflesse nell’acqua, la drammaturgia come un atto di devozione

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Teatro

Come tremano le cose riflesse nell’acqua, la drammaturgia come un atto di devozione

MILANO – È un’ode alla parola e alle sue infinite potenzialità che nella declinazione teatrale trovano la loro massima espressione. “Come tremano le cose nell’acqua (Čajka)” di Liv Ferracchiati è un atto di devozione e molto di più.

Andato in scena nelle scorse settimane al Teatro Studio Melato del Piccolo a Milano, è un’operazione non solo «attraversata» dal Gabbiano di Čechov – come dice lo stesso autore -, ma va ben oltre i confini della singola opera. Il drammaturgo e regista umbro ha voluto infatti rendere omaggio allo scrittore russo, seguendo un gioco di scatole cinesi fatte di teatro nel teatro, ma anche di letteratura nella letteratura, uniche chiavi di sopravvivenza in un mondo fatto di illusioni e conseguenti disillusioni.

In questo suo personalissimo tributo, ne ha seguito quasi lo stesso schema: se Čechov per anticipare il suicidio del protagonista faceva appello a Maupassant (lo scrittore francese aveva tentato di togliersi la vita, come Kostja), Ferracchiati ci aggiunge Foster Wallace, omaggiandolo finanche per il titolo della sua personale visione di Čajka. E lo stesso vale per Turgenev e Shakespeare e , manco a dirlo, per l’ironia, altro elemento comune ai due drammaturghi, sebbene distanti nei secoli e nelle culture.

Si ride, e tanto, nella Čajka ai giorni nostri di Ferracchiati, in maniera più spudorata rispetto all’originale, grazie a trovate che strizzano l’occhio al pubblico – come le crisi focali dello zio o la dissertazione sulle proprietà della valeriana dispert e in quali quantità assumerla -, ma anche ai cultori del testo, come la “La Spezia” esclamata dal dottore e la gamba intorpidita di Maša, qui una vicina di casa.

A dispetto del tappeto sonoro conclusivo di ogni atto, presagio funesto di ciò che avverrà, la prima parte di Come tremano le cose nell’acqua è un abile affresco corale della noia collettiva di questo gruppo di umanità, costretto dalla campagna circostante e dal suo lago, a confrontarsi con delusioni d’amore, insoddisfazioni professionali e di vita, farcite da scambi di battute amari che hanno già dentro tutti gli elementi della insopportabile e fallimentare lotta all’infelicità e all’inesorabile che si paleserà negli atti successivi.

Ferracchiati, con le scene – molto belle – di Giuseppe Stellato, sfrutta abilmente la profondità e l’ampiezza tutta dello Studio Melato, mostrando il teatro per quello che è, compresi gli spostamenti degli elementi, spostando l’azione dal proscenio al bianco accecante del palco; ma decide soprattutto di dare centralità a quel lago, forse nell’accezione simbolica ed esoterica di un grembo materno – come l’acqua – che fa da sfondo a tutta la vicenda  mostrandolo in tutta la sua capacità riflettente, fin dall’accoglienza del pubblico in sala e per tutto il primo e il secondo atto.

In merito al cast, pure composto da nomi di rilievo, non  ci si può non soffermare sulla divina Laura Marinoni: la sua Arkadina, infelice inconsapevole, fagocita chiunque le sia accanto, messo inevitabilmente in ombra. Magnifica.

Doveroso, infine, ricordare due importanti figure, emblematiche per la stesura del Gabbiano secondo Ferracchiati, la dramaturg Piera Mungiguerra e per la consulenza letteraria  Fausto Malcovati.

 

Come tremano le cose riflesse nell’acqua

drammaturgia e regia di Liv Ferracchiati

liberamente ispirato al Gabbiano di Anton Čechov

Scene Giuseppe Stellato

Costumi Gianluca Sbicca

Luci Emiliano Austeri

Con

Laura Marinoni (Arkadina)

Nicola Pannelli (Sorin)

Giovanni Cannata (Kostja)

Marco Quaglia (Dorn)

Petra Valentini (Nina)

Camilla Semino Favro (Maša)

Cristian Zandonella (Medvedenko)

Roberto Latini (Trigorin)

 

Carmen Loiacono

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